Nemo propheta in patria? Il cantautore Marco Turriziani preferisce credere piuttosto al detto Roma
città aperta, e affidarsi al seno materno della sua città natale per dare vita pubblica al suo cd
d’esordio. Ed ecco in arrivo un serie di appuntamenti dal vivo con la sua musica, in diversi punti
della capitale, in club e locali che possano ricevere con il necessario calore un disco molto intimo e
personale, intitolato “Bastava che ci capissimo io e i miei”(produzione Interbeat,
distribuzione Storie di Note, nei negozi da dicembre 2005). Dopo una lunga gavetta come musicista
in tante band, tra le quali i Latte e i sui derivati degli ormai celebri Lillo e Greg, Marco
Turriziani si presenta oggi al pubblico in prima persona, con un lavoro piacevole e lineare, dal
sapore acustico e dal suono corale. Ad accompagnarlo in questa sua fatica gli “Orchestrani”, sette
musicisti di estrazione diversa che hanno impresso al sound del disco un carattere bandistico e
teatrale, senza rinunciare ad accostarsi, in alcuni momenti, alle migliori atmosfere “pop” della
tradizione italiana.
Le 14 canzoni che compongono il CD sono come piccole tessere di un mosaico; ciascuna
contribuisce a rendere intelligibile la storia che vi si intreccia all’interno. Si potrebbe definire un
unico racconto della memoria in cui, con tocco delicato, si attraversa il tempo della gioia, degli
amori, del disincanto. Ma tutto velato da quella sottile ironia che serve a sdrammatizzare, quanto
più possibile, gli eventi della vita. Già dal titolo traspare il rammarico nel non essere riusciti a
comunicare; una comunicazione resa possibile, invece, dalla musica. E allora le ballate “Come a
mamma’”, “Il figlio che…”, “Nel nome del padre” sono il desiderio di parlare con qualcuno al
quale non si ha avuto il tempo di dire tutto. Brani come “Rosa da amar”, o l’eccentrico ”Forse è
una strega”, ci mostrano invece una figura femminile che rimane impressa nel ricordo, dove da una
parte spicca la malinconia e dall’altra la giocosità. Non mancano le occasioni, per così dire,
“leggere”, in cui il comunicare diventa “dichiarazione”, un’aprirsi al sentimento che da sempre ha
accompagnato la musica nei suoi canti, e cioè l’amore. “Benedetto amore”, ”Siamo chi si ama”: già
i titoli tradiscono questa intenzione. L’abbandono e la solitudine ritroviamo, invece, nelle canzoni
“E’ già Natale”, “Come un gatto che s’è perso” e “Tai chi”, anche se temi dolorosi qui si affrontano
in modo dissimulato, spinti verso il paradosso, a volergli quasi conferire un senso del ridicolo. C’è
il momento più intimistico, quello più personale e quasi sussurrato, “L’ora delle luci magiche” e “Il
mio cane ed io” in cui si accostano ricordi e interrogativi, domande che nascono dalla curiosità e
dallo stupore verso quelle cose, animate e inanimate, che ci circondano. ”Stiamo a guardare” è
invece il canto dell’indignazione verso l’ingiustizia e la cattiveria degli uomini, un grido di
denuncia dal tono scenico, che cita la musica che ha accompagnato le rappresentazioni brechtiane
nell’ “Opera da tre soldi”. Resta, infine, un momento per la riflessione; si tratta del brano
strumentale “E’ domenica” in cui non figurano parole se non quelle immaginate ed evocate
dalla melodia che si ripete, circolare, come un viaggio appunto nei giorni, nell’amore…